Se ascolto la scienza vado sul sicuro. Davvero?
Al giorno d’oggi se la fiducia la dobbiamo riporre in qualcosa, questo qualcosa è sempre più spesso un qualcosa fuori da noi, e cosa può esserci di più sicuro al mondo se non la scienza? I suoi metodi sono rigorosi, incontrovertibili e replicabili, insomma, non c’è nulla di più affidabile su cui potremmo puntare.
Davvero?
Io fossi in te non punterei proprio tutto tutto su questa bella favola.
Vediamo il perché.
Il guaio è che il nostro bisogno di certezze tende a farci semplificare la realtà più del dovuto, e così crediamo che lo scienziato sia un super uomo devoto e sacrificato al progresso dell’umanità che nel suo labotorio conduce esperimenti controllabili per definizione. Ma la realtà, soprattutto quella della ricerca scientifica applicata all’ambito nutrizionale, è piuttosto lontana da questa immagine.
La ricerca nutrizionale, infatti, è notevolmente complessa sia da condurre, sia da interpretare.
Studiare gli effetti di un alimento sulla salute richiede di reclutare molte persone simili per età, sesso, provenienza e stile di vita, in modo da eliminare i possibili effetti di queste variabili sui risultati.
Da un canto, le persone scelte devono rispettare scrupolosamente per mesi o anni una dieta che vari per un solo aspetto (quello oggetto di studio, tipo la quantità di grassi).
Dall’altro canto, i ricercatori devono seguire per decenni queste persone, tracciando malattie e cause di morte.
Insomma, sono studi difficilissimi e costosissimi e che, ciliegina sulla torta, spesso portano a dei risultati negativi che vanificano il tempo e i soldi spesi.
Per queste ragioni, la maggioranza degli studi nutrizionali sono di altro tipo.
Sono studi epidemiologici di correlazione, ossia studi in cui si osservano le abitudini alimentari di determinati gruppi di persone alla ricerca di una correlazione con un particolare evento. Per esempio, se voglio verificare l’ipotesi che la dieta ricca di grassi aumenta il rischio di infarto, allora sceglierò due popolazioni, una con dieta ricca di grassi (come i francesi) e una con dieta povera di grassi (come i giapponesi) e misuro chi ha più infarti: se la differenza è significativa allora ho trovato una correlazione.
Questo tipo di studio, per sua natura, è molto più semplice ed approssimativo rispetto al primo tipo descritto. Infatti, per investigare le abitudini alimentari si utilizzano questionari che, per quanto ben strutturati sono imprecisi, sia perché le categorie proposte spesso risultano generiche (per esempio, se uso la categoria “carne”, non faccio distinzione sulla qualità, che è un dato che fa grande differenza in termini di salute), sia perché le persone possono essere approssimative nel valutare il proprio consumo di un dato alimento (sovrastima o sottostima).
Inoltre, molte delle correlazioni individuate sono del tutto casuali, ponendo ai ricercatori grandi problemi di interpretazione.
Negli Stati uniti, per esempio, esiste una correlazione tra il consumo di gelati e il rischio di essere attaccati da uno squalo.
Oddio, gli squali prediligono i mangiatori di gelato? Anche no.
È che i consumatori di gelati e gli squali sono due categorie legate fra loro da un terzo elemento: l’arrivo dell’estate. Con l’arrivo dell’estate gli americani mangiano più gelati e fanno più bagni in mare, rischiando così maggiormente l’incontro con uno squalo.
Questo per dire che si possono individuare delle correlazioni statisticamente corrette ma di significato nullo, e non sempre la non pertinenza della correlazione è così ovvia.
Inoltre, poiché una dieta povera di qualcosa (come i grassi) sarà inevitabilmente ricca di qualcos’altro (come i carboidrati), trovare una correlazione con il diabete non è poi così scontato: il problema è mangiare pochi grassi o troppi carboidrati?
A tutto questo, se ci aggiungiamo il fatto che la maggior parte delle malattie croniche che affliggono la nostra società non sono connesse a un solo fattore, l’interpretazione dei risultati si fa ancora più complicata.
Ma non è ancora tutto.
Individuare una correlazione fra due eventi vuol solo dire che questi due avvengono contemporaneamente, ma nulla ci dice in merito al fatto che l’uno sia causa dell’altro. La correlazione è solo il punto di partenza per ulteriori indagini.
Non voglio dilungarmi troppo su questo aspetto (se sei interessatə ad approfondire eccoti la mia fonte), ma sappi che è necessario valutare la bontà della correlazione usando dei criteri di causalità che, ahime, negli studi nutrizionali spesso non vengono adottati. E questo significa che l’interpretazione di una correlazione richiede moooolta cautela.
Un’ulteriore difficoltà negli studi nutrizionali è data dal fatto che valutare gli effetti di una dieta sull’uomo richiede decenni.
E allora ecco che molti ricercatori aggirano l’ostacolo studiando gli animali, come topolini o conigli. In questi studi il controllo dello sperimentatore sulla dieta è totale e, vista l’aspettativa di vita di queste bestiole ben più breve di quella umana, la valutazione dei risultati non richiede tempi lunghissimi. Ma neanche a dirlo, i risultati di questi studi non necessariamente sono trasferibili all’essere umano e quindi anche in questo caso l’interpretazione richiede moltissima cautela.
Stai smontando un po’ il potere indiscusso del sapere scientifico? Il mio intento non è di certo quello di farti condannare la scienza ma, visto che son qui per farti conoscere i benefici della via di mezzo, non posso permetterti di affidarti a lei, all’opposto, riconoscendole poteri oracolari.
Considerato quanto ci tengo a riportare nella tua vita innanzitutto la fiducia nella tua esperienza personale, aggiungo ancora qualche motivo per aiutarti a far scendere dal piedistallo la scienza.
La scienza è fatta da comuni mortali, e come tale non solo risente degli errori metodologici visti sopra, ma è anche, inevitabilmente, specchio di alcuni limiti del comportamento umano.
Uno di questi limiti è che quando siamo convinti della veridicità di una cosa andiamo a caccia di conferme e di certo non di smentite di quella cosa, e questo succede tendenzialmente a tutti, anche agli scienziati, ma nel loro caso restare vittima di questa propensione – fra l’altro piuttosto comprensibile se pensiamo che in ballo ci può essere il lavoro di tutta una vita –, può portare alla creazione di falsi miti.
Come se non bastasse, a tutto questo si aggiunge il pubblication bias, ovvero il fenomeno per cui uno studio ha molta più probabilità di essere pubblicato se mostra la correlazione che gli studiosi stanno cercando. E questo cosa vuol dire? Che gli studi pubblicati non rispecchiano tutta la ricerca che è stata condotta su un dato tema.
Infine, non possiamo trascurare il fatto che qualunque ipotesi, se ripetuta più volte, si trasforma in un dato di fatto, e questo, a sua volta, diventa una verità assodata che nessuno poi si sogna più di mettere in discussione. Su queste cosiddette ‘verità’ i ricercatori non conducono ulteriori studi, sia perché perdono interesse sia perché temono di non ricevere fondi, e così una verità accettata, anche solo provvisoriamente, si trasforma in una verità indiscussa.
La ricerca scientifica ha dunque veramente un compito ingrato, ma anche noi dal nostro canto abbiamo un compito decisamente scomodo da compiere: assumerci pienamente la responsabilità di ogni nostra scelta, mettendo la conoscenza a servizio dei nostri bisogni personali, e non viceversa, lasciando che sia il mondo là fuori a dettare i nostri bisogni.
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Questa settimana nel Dispensario trovi: un suggerimento per scegliere cosa portare in tavola senza bisogno di avere un master in nutrizione, e una lettura che ti aiuterà a riscoprire i benefici del criterio naturale con cui l’uomo da sempre, fino a una settantina d’anni fa, si è approcciato al proprio cibo.